Succede così nella vita: molti dormono, o sono così immersi nelle proprie faccende ed affari che un bel giorno s’accorgono che i bambini sono diventati uomini e gli uomini sono diventati santi.

Fermarsi è difficile, ed allora o si crede facilmente e non si capisce profondamente, o si ha la forza di fermarsi e di fermare il santo e di guardarlo bene in faccia, come fece quel buon Sacerdote di Porta Cristina, il quale non voleva essere un facile testimone.

Dopo l’incontro di Porta Cristina ci conviene tornare in Convento, nel Convento di Buon Cammino, dove molte cose sono ancora come a quei tempi. Io le vidi, molti anni fa quasi intatte attorno alla miserabile cella di Fra Ignazio.

E, ospite allora dei Frati per leggere con calma i documenti relativi alla vita di Fra Innassiu, mi sono trovato per lunghe ore a contatto con le povere cose che gli appartennero. Non come proprietà, ma dategli in uso dalla comunità.

Quattro mura nude ed una rozza porta, stata sempre senza serratura. Un piccolo armadietto a muro, chiuso da due sportelli grezzi. I pochi metri quadri consentivano tre tavole sollevate da terra per far da giaciglio: una celletta, che dava l’impressione di un carcere: un carcere per conquistare la libertà.

Anche i laici cappuccini, quando cercano la pace, che gli Angeli annunziarono sulla Grotta di Betlem per gli uomini di buona volontà, sono, come tutti noi, soggetti ad una schiavitù: hanno il corpo e non possono rinunciarvi, perché attraverso la sua vita ci è dato il divino dono dell’anima. Anzi bisogna ascoltarlo, fare i conti con esso quando ce ne dimentichiamo: il sonno e tutti gli appetiti fanno suggestivi e talvolta irresistibili richiami. E’ questa la schiavitù ch’è tanto più sentita quanto più ci s’accorge ch’essa è necessaria alla pace dell’anima, non contraria: bisogna fare i conti ogni ora: Laudato sii o mio Signore a tutte l’ore, perché anche tutte le ore sono del fratello corpo, di questo inseparabile compagno, ch’è santo perché può non esserlo. Le cose di fra Ignazio parlano chiaro questo linguaggio. Se noi avessimo creduto in pieno ai momenti migliori della sua infanzia, ed all’inzuccheramento della sua adolescenza e del suo affacciarsi ai vent’anni, noi non comprenderemmo la fuga del ronzino e soprattutto il suo arrestarsi sul dirupo laconese, e meno ancora comprenderemmo quel che stiamo per raccontare, tenendoci con molto scrupolo vicini all’essenza dei fatti come risultano dalle testimonianze molteplici per ogni particolare.

Fra Ignazio dormiva come tutti gli uomini, ma quanto nessuno lo sa, perché nessuno mai lo dovette svegliare. Bambino, alla porta della parrocchia precedeva il sacrestano e il parroco; nel noviziato il turno di svegliatore ce lo fa sorprendere nelle ore piccole a faticare arrivando ai limiti della resistenza, ed ora arriva nella chiesetta incorporata nel Convento prima degli altri frati, i quali ve lo lasciano quando vanno via dopo il mattutino di mezzanotte: prega, prega, prega.

Un giorno, non uguale a tutti gli altri, Fra Ignazio s’accorge che il saccone riempito di foglie secche di granturco (la lana allora in Sardegna era per i Signori, ed il crine non s’usava) era troppo comodo, che il cuscino non era proprio necessario. Poca paglia o nude tavole e una pietra o pochi sarmenti per capezzale accoglievano ogni sera il suo corpo. Tuttavia frate “molente” (asino da mola, abbiamo detto) insorge ed ha le sue insaziabili pretese. Come fare?

Mangiare è un dovere, oltre che un diritto. Ma non è un obbligo se non il nutrimento necessario. Fra Ignazio ha appreso quest’arte ben presto e si ha notizia di astinenze tali nella sua adolescenza che alcuni attribuirono allora la sua malattia, o per lo meno la sua gravità, alla debolezza fisica generata dalla denutrizione. Non fu facile scoprire il suo sistema dietetico in refettorio, e certamente passò molto tempo. Infatti non era né giusto, né possibile rifiutare il cibo, e quindi non era sulla quantità che poteva agire: ciò lo mise nelle condizioni di nascondere la sua volontà di mortificarsi, di rifiutare, per quanto gli fosse possibile, alla gola il gusto del cibo. Nessuno avrebbe notato tutte le sue pie industrie per togliere il sapore alla minestra aggiungendovi l’acqua (com’era calda la minestra!), oppure di versarvi un bel po’ di sale (a lui piaceva che il sale si sentisse), oppure quando non si sentiva osservato, particolarmente nei primi tempi, vi versava altri intrugli, di cui non si seppe mai la natura. In fondo alla lunga mensa, specialmente nella poca luce della sera, nel gran refettorio illuminato dalle lampade ad olio, egli si sentiva favorito in queste sue faccende segrete, che tardarono a divenire palesi agli altri frati. Questi per francescano costume mangiano e guardano al proprio piatto, concedendo a tutti quella fraterna libertà di cui parla San Paolo. Con gli ospiti no, bisogna offrire e, quando si vede riservatezza, insistere: ma Fra Ignazio era sempre al suo posto da parecchi anni ormai, e nessuno vi faceva caso. Si capiva ch’era un frate mortificato, e ciò in un Refettorio, dove nell’agape francescana si riuniscono i cristiani perché dichiaratamente vogliono santificarsi, era un fatto comune (segue).